Pur essendo nato alle sue pendici, non avevo mai pensato all’Appennino nella sua conformazione e nei suoi significati fino a dieci anni fa quando, seduto sui gradini di una piccola chiesa nei boschi di Vessalico, in provincia di Imperia, restai folgorato dalla lettura di una delle prime tappe del viaggio che lo scrittore Paolo Rumiz stava facendo a bordo di una Topolino degli anni ’50, da Ventimiglia a Reggio Calabria, proprio lungo le strade della dorsale appenninica; strade abbandonate dal traffico, nessuna grande città, nessun rettilineo.
Quell’estate decisi di andare in vacanza verso il sud del Mar Adriatico ma, in prossimità di Cesena, mi trovai in una coda assurda sull’autostrada; i minuti passavano lenti e ripresi in mano il racconto di Paolo Rumiz, pubblicato a puntate su Repubblica, e il mio sguardo cadde su quelle righe: Gli appennini li scopri solo se un ingorgo ti espelle dall’autostrada. Soltanto allora ti capita di scoprirne l’infinito e affascinante labirinto. E se spegni il motore senti un immenso silenzio di cicale, torrenti e lucciole.
Mi ci volle un attimo per decidere il cambio di passo. L’uscita di Cesena era ormai vicina e l’auto prese la direzione dei colli. Il primo paese, alle prime luci dell’alba, fu Sogliano al Rubicone; lo scelsi per le fosse del formaggio, l’unica notizia che conoscevo, ma rimasi stupefatto di fronte ai libri magici e ai calendarietti raccolti nel Museo d’arte povera, visitabile nel palazzo comunale. Poi fu la volta di Pennabilli dove bussai alla porta di Tonino Guerra: ma in quei giorni non c’era, mi disse sua moglie Lora.
A distanza di dieci anni sono andato a ripescare una pagine di quel mio breve diario di viaggio e, leggendo, ne capirete il motivo.
15 agosto 2006, martedì
Oggi sono arrivato ad Amatrice, senza motivo, come del resto è per tutti questi giorni; l’ho deciso quando mi sono imbattuto nel cartello che ne indicava la deviazione. Un buon piatto di bucatini ci può anche stare, ho pensato. Uno dei tanti pensieri che si accavallano in questi giorni di solitudine; da quattro giorni non scambio parola, oltre alla richiesta di una camera o del menu in trattoria. Non mi dispiace questo silenzio, lo induce il viaggio che sto facendo e che, a passo lento, mi ha portato a scoprire paesi che mai avrei immaginato di visitare: l’eremo di Fonte Avellana, Amandola, Visso.
Muoversi lungo le strade ormai abbandonate dell’Appennino dove, per ore, non incroci altro che qualche mezzo agricolo, ti riserva più di una sorpresa come stamattina quando, a venti chilometri dall’ultimo paese e a sette da quello successivo, lungo la strada che attraversa una boscaglia senza soluzione di continuità vedo camminare un vecchio, vestito con giacca e cravatta. Mi fermo, gli offro un passaggio e l’unica parola che ci scambiamo è la destinazione: vado alla messa dell’Assunzione.
Il suo vestito avrà cinquant’anni, eppure è ancora in ottimo stato. Avrei voglia di parlare un po’ ma il vecchio guarda fisso davanti a sé, con le mani in grembo, quasi abbandonate al riposo. Lo lascio a Castelsantangelo e proseguo verso Ascoli Piceno, quando mi imbatto nella deviazione per Amatrice. Arrivo al paese intorno alle undici, parcheggio e comincio a chiedere un po’ in giro dove fanno i migliori bucatini. Spaghetti, mi correggono in un paio. All’Hotel Roma è l’indicazione unanime.
Arrivo all’hotel e decido di prenotare. La ragazza alla reception mi dice che devo parlare con il titolare al piano di sotto. Prendo l’ascensore che si apre su una sala immensa, saranno più di duecento posti a tavola. La vetrata si apre sulla valle e, mentre osservo il panorama, un signore mi chiede di cosa ho bisogno. Era il titolare.
“Avete posto?”
“Per quanti?”
“Sono da solo”, immaginando un no perché porterei via almeno tre posti a tavola.
“ Va bene”.
“Allora torno tra un’oretta”. Era quasi mezzogiorno e avrei approfittato per un giro in paese.
“No. Si siede lì, per il primo turno, perché all’una c’è il secondo turno e non ho posto”. Era perentorio nella sua gentilezza e non ho potuto fare altro che sedermi. A meno di un palmo c’era l’altro tavolo dove si stavano accomodando due signore prossime alla pensione.
Sono maestre di sicuro, ho pensato.
“Allora per il pranzo abbiamo antipasto di salumi misti, olive all’ascolana, mozzarella. Di primi ce ne sono due: spaghetti e lasagne. Per secondo l’abbacchio con le patate. Dolce della casa, caffè, acqua e mezzo litro di vino. Trenta euro”.
“Io prenderei solo un piatto di spaghetti all’amatriciana”.
“Sono sempre trenta euro”.
Non ho ancora capito se era stata una battuta, di fatto ho mangiato tutto.
All’una, in una sala strapiena, chiedo il conto e il titolare si rivolge alle due signore con: “Vi ho messo vicino a questo bel giovane e non gli avete nemmeno rivolto la parola”.
Inizia così una conversazione dove scopro che sono sorelle e maestre prossime alla pensione, di Roma, che vengono in villeggiatura tutti gli anni. Io racconto del mio mestiere di giornalista, del viaggio, di come forse ne scriverò. Alla fine, dopo un’ora aggiunta di conversazione, ci salutiamo e loro mi dicono che hanno anche la mail e che gli farebbe piacere leggere ciò che scrivo.
Il viaggio poi proseguì verso Campo Imperatore e quella conversazione ritornò a galla pochi giorni dopo, quando mandai loro uno scritto, ringraziandole della conversazione. Dopo due giorni, da due mail diverse, Mariateresa e Rosanna M. mi risposero, in modo pressoché: “Buongiorno signor Franchi, il suo racconto è molto bello ma ci siamo permesse di correggere qualche piccolo errore di grammatica!”
Fu fantastico, avevo trovato due maestre che sapevano perfettamente le regole dell’italiano. Inutile dire che ne approfittai per anni e, ad ogni dubbio, ebbi la risposta giusta.
Amatrice oggi è quel che vediamo. Essere stato in quell’hotel mi ha fatto piangere il cuore di fronte alle immagini del suo crollo, ma ho voluto raccontare ugualmente questa bella storia per ricordare il valore insito in quelle comunità, nei paesi dell’Appennino che rappresentano, anche se abbandonati, anche se distrutti come in questo caso, l’Italia vera.
Ci sono architetture costruite nei secoli per favorire l’aggregazione, anche solo per difesa se vogliamo ed è stato così per molto tempo; solo in questo lungo tempo di pace che scandisce le nostre vite, le architetture dei borghi dell’Appennino sono diventate una condizione di vita serena, dove tutti conoscono tutti, dove si è accolti. I nomi dei paesi sono sinonimo di leggende e di rimandi secolari, dove si sono mischiate e sono attecchite usanze e sapori di altre culture.
Il paesaggio degli Appennini è una scoperta continua, nel giro di due ore e facendo pochissimi chilometri, si incrociano cose incredibili come una pompa di benzina abbandonata a sé stessa ma ancora funzionante, una villa avvolta dai rovi che deve aver visto fasti straordinari, un paese con le facciate che guardano sulla valle senza alcuna apertura per evitare che i briganti vedessero le luci di notte. Le persone che abitano gli Appennini sono da conoscere, hanno sempre una storia da raccontare; come quelle che abbiamo sentito in questi giorni tristi del terremoto nei quali, comunque, nessuno ha intenzione di lasciare per sempre quei posti. La speranza è che quelle storie arrivino al cuore di chi avrà il compito di ricostruire, per riportare questi luoghi ai tratti che il tempo gli ha impresso.
Luigi Franchi
luigifranchi@solobellestorie.it