Nel varcare la soglia del Pascucci al Porticciolo a Fiumicino, con una cassetta di belle verdure in mano, Roberto Segalini mi colpì subito, nonostante non sapessi ancora il suo nome, né chi fosse. A tal punto che Vanessa, la moglie di Gianfranco Pascucci e direttrice di sala che in quel momento stavo intervistando, mi disse: “Voglio presentarti una persona, a mio avviso, speciale”.
Bastarono poche battute – “I clienti ci dicono: la vostra roba ha un sapore diverso ed è più duratura… Con questo sistema mio nonno è campato fino a 100 anni” – e una faccia di persona per bene per convincermi a una sveglia, il giorno dopo all’alba, per raggiungere Roberto nei suoi campi, sull’Isola Sacra alla periferia di Fiumicino.
La prima luce del giorno disegnava file di verdure che definire rigogliose è dir poco, il sole radente ne esaltava le diverse tonalità di verde, poco lontano alcuni edifici rurali che davano il senso di una vita un tempo pulsante, e poi loro: Roberto e sua moglie Franca, che stavano finendo di sistemare, insieme a Roberto Cavalli, loro socio in questo solido progetto agricolo, le primizie raccolte nei locali dello spaccio aperti al pubblico.
Roberto di origini piacentine, Franca di provenienza veneziana. Nati entrambi a Fiumicino, figli di quella massiccia emigrazione avvenuta in queste terre negli anni ’30 per avviare la bonifica dell’agro pontino.
“Mio padre arrivò qui in viaggio di nozze, ospite di un altro piacentino che già lavorava alle dipendenze dell’Opera Nazionale Combattenti, a cui erano stati affidati i lavori di bonifica. – racconta Roberto – E i viaggi di nozze, in quegli anni, non erano certo un lusso. Infatti, nei giorni che rimase qui, lavorò alla terra, fino a che il direttore dell’Opera non gli propose di iscriversi alle liste per l’assegnazione delle terre”.
Un gesto fatto di controvoglia, forse, ma sta di fatto che, pochi mesi dopo, Antonio Segalini fu chiamato e gli vennero assegnati, come da regolamento, cinque ettari per ogni unità lavorativa: lui, sua moglie, suo padre. Lavorarono sodo per estirpare questi campi dalla palude e dalla malaria, e furono poi Roberto e Franca a mantenerli in questo stato, raccolto dopo raccolto, rispettando le pratiche colturali che gli fanno dire che sono “gli ultimi dei mohicani”.
Quei terreni, come tutta l’Isola Sacra, sul finire della seconda guerra mondiale, vennero allagati per impedire lo sbarco delle truppe americane che si spostarono comunque ad Anzio. “Non restava più niente, tranne la volontà di farcela. – è ancora Roberto che parla – Mio padre provò dapprima a introdurre coltivazioni piacentine come il trifoglio alessandrino, ma ormai era tutto diventato sabbia e argilla. Fu così che iniziò ad inventarsi nuove colture, come la carota, di cui è stato il primo italiano ad ottenere una selezione: quella che oggi è conosciuta come Carota Fiumicino”.
Queste erano terre in zone sperimentali, a riscatto, e fu così che, a metà degli anni Cinquanta, “mio padre, a cui si affiancò mio zio, ebbe la possibilità di acquisirne la proprietà. – ricorda Roberto – Erano gli anni felici della ricostruzione, ognuno rispettava i doveri, le terre erano mantenute in ordine, le acque venivano distribuite con equità tra i diversi possedimenti, i canali erano tenuti puliti dai confinanti”.
Era il tempo, interviene Franca, “in cui l’agricoltura aveva regole rispettose dei cicli naturali. Fu proprio mio suocero che mi fece appassionare a questo mestiere. Proprio io, donna di mare”.
Alla signora Franca va il merito di non avere mai mollato, neppure negli anni in cui esplose un mercato edilizio che portava via ettari su ettari di campagna. Anni in cui coltivare la terra significava lavorare senza profitto. Lei spronò più e più volte Roberto a resistere, a non abbandonare gli insegnamenti del padre, le tecniche di coltivazione rispettose della terra, a sostenere che “lavorare in campagna è un altro tipo di fatica, ma liberatorio per la mente”.
Fu la determinazione a portarli ad essere entrambi protagonisti della costituzione della cooperativa agricola S.Ippolito (dal nome della località su cui insistono le loro terre), nel 1975, che oggi conta 23 soci impegnati in diverse pratiche colturali: dal foraggero alla frutta e alla verdura e di cui Franca Rossi è presidente per merito.
Roberto e Franca, sui loro due ettari, oggi praticano gli insegnamenti ricevuti da Antonio di un’agricoltura sana e pulita.
“In questi campi non sono mai entrati altro che zappa e decespugliatore, nessun agente chimico, nessun concime che non sia l’erba che cresce spontanea anno dopo anno e che utilizziamo come fertilizzante naturale con la pratica del sovescio. – spiega Roberto – Lo faccio per rispetto e per amore di mio padre che mi ha trasmesso un grande insegnamento: non scivolare mai nell’idea che tanto sono gli altri che mangiano le tue verdure”.
Nascono così, rispettando i principi basilari della rotazione, le verdure nei campi di Roberto che le coltiva aiutato da Lacky, un giovane indiano di origini Sikh, che ha appreso a tal punto questa pratica che ne è diventato il principale propugnatore.
“A volte mi dice: vedi quella pianta di cavolo cappuccio? Ha preso la peronospora, ma non serve darle trattamenti che rischiano di intaccare tutta la produzione. Basta strappare le poche altre foglie attorno” confida Roberto. Così per ogni altra azione in campo.
“Questa è una terra ancora pulita, la sento quando il terreno scorre sotto la zappa o sotto l’erpice con cui taglio l’erba tra fila e fila. Non è mai cambiato il metodo colturale del sovescio: vedi questi broccoletti? Prima qui ho piantato le zucche e prima ancora la senape che pulisce tutto. Continuo anche nella pratica degli accoppiamenti che insegnarono a mio padre gli ortolani di Nocera, arrivati qui dalla Campania: ad esempio, in mezzo al pomodoro, metto il basilico che esercita una funzione repellente sugli insetti che attaccano questo ortaggio”.
Franca sorride, ascoltando suo marito e, in un momento di distrazione di Roberto, mi confida: “Lui parla alle sue verdure. A volte lo sento mentre gli dice avete fatto un bel passo stamattina oppure, guardando i cavolini: ragazzi fermatevi un attimo, siete esagerati. Come se fossero persone!”
Sono stati ottanta i bonificatori dell’Isola Sacra: lo apprendo da una pubblicazione, a firma del fotografo Mauro Lausdei, dalla quale cito queste belle parole: “Della titanica impresa dei bonificatori dell’isola resta oggi il valore della fratellanza, dell’onestà e di lunghi anni di duro lavoro. Lavoravano e stentavano, ma sentivano anche la gioia di creare, certi che la loro opera non sarebbe stata dimenticata”.
C’era il buon motivo quando Roberto ha varcato la soglia del Pascucci al Porticciolo. Eccome se c’era!
Luigi Franchi
luigifranchi@solobellestorie.it
Cooperativa Agricola S.Ippolito
Via Valle Sarca, 51
Fiumicino (RM)
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