Questa è la storia di una rivoluzione di quelle grandi, nata dall’incontro di una comune visione e attuata senza voler perdere tempo o sperare che arrivino soluzioni diverse dall’alto. Per raccontarla, ci caliamo dentro la vita di una famiglia che questa rivoluzione l’ha accolta senza esitazione e la sta alimentando.
“Già prima che nascesse Tommaso con mio marito ci siamo detti che lo avremmo cresciuto come Monica, la nostra primogenita allora dodicenne. Quando è arrivato è stata una gioia pazzesca!” mi racconta con grande vitalità Marinella, mamma di Tommaso, mentre ci prendiamo un aperitivo in piazza San Petronio, a Bologna, nel bel mezzo dei festeggiamenti per il santo patrono della città. Ma non ci importa: siamo da subito sintonizzatissime, non c’è musica o vociare che ci disturbi o disturberà.
Lei alle regole che imponeva il suo status aristocratico non ha mai voluto sottostare. E questo fin da bambina: “non potevo sedermi a tavola prima della nonna, non potevo interloquire con i grandi, m’infastidiva l’aver dietro di me un cameriere per versarmi l’acqua e non accettavo di dover fare l’inchino…”, ricorda Bebè Cherubini che in una famiglia aristocratica ci è nata e cresciuta, in quel di Rossano Calabro, senza averlo potuto scegliere.
Se la madre era legata all’etichetta, il padre e il nonno erano più morbidi e quest’ultimo di fronte a una nipote fuori dalle righe era solito dire “lasciatela stare perché lei va per conto suo”.
D’estate la famiglia si trasferiva nel seicentesco casino di campagna in contrada Amica; qui il passatempo preferito era sfuggire ai controlli e raggiungere i figli dei contadini per giocare con loro, anziché intrattenersi con le amichette a pettinare le bambole.
Intorno ai vent’anni Bebè si trasferisce a Roma, in fuga dalle condizioni di casa sua, si sposa e proprio durante il viaggio di nozze, nel 1962, arriva una folgorazione che l’accompagnerà per diversi anni a venire. Nel transitare dalla campagna francese un guasto alla macchina costringe lei e il marito a fermarsi. Una signora che abita accanto all’officina li accoglie in casa propria. Quell’ospitalità squisita, la condivisione di casa, cibo e parole entusiasmano Bebè che in cuor suo inizia a pensare quanto sarebbe bello creare nel casino di famiglia una sorta di ospitalità rurale (forma primordiale di agriturismo).
“Buongiorno Luigi. Tutto confermato per stanotte, ore 4,30, giù al porto della Marina Lobra. Appuntamento vicino a un ristorantino che si chiama Funiculì Funiculà. In ogni caso ti lascio il cellulare, si chiama Tonino S.Rosa, il signore con la maglia celeste. Ci vediamo stasera, Mimmo”.
Non poteva regalarci gioia più grande, Mimmo.
Scendiamo per i vicoli di Marina Lobra, non si sentono altri rumori oltre al ritmo stentato di un Ape e di un motore che si allontana, quello di una barca verso il mare aperto.
Al porto Tonino S.Rosa deve ancora scendere, ci dicono tre uomini che presidiano, insonni, un parcheggio destinato, tra poche ore, a riempirsi delle auto dei villeggianti.
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Lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro vuol dire amare! Sono parole di Papa Francesco che tornano alla mente durante la conversazione con Giuseppe Giampiccolo, Maria Palazzolo e Giuseppe Di Grandi di fronte ad una serie di piccoli assaggi di croccante e torrone siciliano, nel loro stand a Fa’ la cosa giusta, la fiera del consumo critico e responsabile che si tiene a Milano ogni anno in marzo.
La bellezza attrae e svela, a ben interrogarla, come un pieno che si contrappone al vuoto.
Camminiamo a passo spedito verso il Porto Canale di Cesenatico. La tappa non è programmata e non abbiamo molto tempo ma prevale il desiderio di carpire, anche per pochi attimi, la quiete di quel luogo, come solo una sera d’inverno sa regalare.
A un tratto entrambi veniamo attratti da una vetrina che si affaccia sulla via: Luigi per i libri esposti, io per due oggetti in bella mostra sulla scalinata all’ingresso.
Due colpi di fulmine che ci portano istintivamente a due diverse reazioni: lui entra e inizia a sfogliare libri, io resto fuori a rimirarmi questi oggetti, affascinata.
Ci sono dettagli che ti portano ad immaginare che, varcata la soglia della libreria, troverai di certo qualcosa di buono da leggere. Se poi, da quei dettagli, senti che c’è anche qualcosa di bello da raccontare allora il tempo cambia il suo ritmo, ti attardi davanti ad un oggetto oppure ad una copertina, come in questo caso, perché senti che si può andare oltre al piacere individuale che ti danno buone pagine da leggere; senti che qui c’è qualcosa da condividere.
Pagina 27 è il nome che Stephanie ha scelto per la sua piccola libreria a Cesenatico, dove non c’è un titolo da vetrina, non c’è una strenna, non ci sono sconti promozioni al 25% per invogliare il lettore all’acquisto.
“Pensavo di aver visto tutto, in realtà quest’opera ha scardinato tutte le convinzioni”. A fare questa affermazione è Saverio Tutino, giornalista e scrittore, ideatore dell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. Tutino pronunciò queste parole nel 2010, un anno prima della sua morte, in un’intervista a proposito del diario di Vincenzo Rabito, siciliano, semi-analfabeta.
Rabito, di professione cantoniere, si trovò di fronte ad una macchina da scrivere e decise di impararne il funzionamento, arrivando a battere sui tasti oltre mille pagine di un diario in cui raccontò la sua vita, intervallando ogni parola da una virgola o da un punto e virgola. Quei fogli, tenuti insieme da un fil di corda, vennero consegnati all’Archivio dei diari dal figlio Vincenzo.
I piccoli gesti aiutano, molto più di quanto pensiamo! Soprattutto se diventano migliaia e migliaia.
Ho avuto questa percezione quando, pochi giorni fa, alla radio, ho sentito Carlotta Sami, portavoce italiana dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), spiegare quanto fosse importante continuare a garantire istruzione ai 3,7 milioni di bambini che oggi vivono nei campi dei rifugiati.
“Nel Sud Sudan settentrionale c’è un campo profughi con 50mila abitanti. Quando l’ho visitato ho trovato solo ragazzini. Pensavo che gli adulti fossero altrove, ma poi ho scoperto che non c’erano. Erano rimasti indietro: morti, o in attesa di raggiungere i loro figli. Ma intanto li avevano mandati: sapevano che in quel campo c’era una scuola, c’era un futuro” spiegava Carlotta Sami.
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Ci sono iniziative che vengono fatte dalle aziende senza mai sbandierare ai quattro venti il proprio impegno etico e sociale; così come ci sono persone che mettono molta parte del proprio tempo in azioni solidali senza che il loro nome compaia da nessuna parte. Le loro sono le storie più belle, perché dimostrano che si può fare. Questa riflessione torna sempre più spesso in mente da quando è nato solobellestorie.it, per il semplice fatto che ci si imbatte in queste aziende o persone senza doverle andare a cercare ma con la casualità dettata da mille fattori: per empatia o per una conversazione a margine di un incontro professionale come quello in cui ho scoperto la Banca del latte umano donato che, dal 2012, viene sostenuta da un’azienda di uomini e donne che si dedicano a questo progetto in stretta collaborazione con il Policlinico Sant’Orsola di Bologna.
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Correva la fine degli anni ’90, quando mi sono affacciata ad un mondo nuovo: quello degli amori voluti. Mi rivedo in quelle estati impegnata con il lavoro stagionale in una locale fabbrica di trasformazione del pomodoro, nel ruolo di porta-campioni. A cadenza oraria facevo i miei prelievi di prodotto e li portavo ad analizzare in uno laboratorio limitrofo.
Ricordo la mia conquista sindacale della bicicletta col cestino, per muovermi più agevolmente entro i tempi. Non ho tardato a diventare porta-bigliettini d’amore (è nata lì la storia di due colleghi che si sono poi sposati) e anche porta-leccornie in quella notte – una sola in tutta la stagione – in cui portavo torta e biscotti per tutti. Quella mansione indubbiamente favoriva le relazioni con i colleghi e, quando possibile, quella battuta in più. E questo mi faceva stare bene!
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