“Pensavo di aver visto tutto, in realtà quest’opera ha scardinato tutte le convinzioni”. A fare questa affermazione è Saverio Tutino, giornalista e scrittore, ideatore dell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. Tutino pronunciò queste parole nel 2010, un anno prima della sua morte, in un’intervista a proposito del diario di Vincenzo Rabito, siciliano, semi-analfabeta.
Rabito, di professione cantoniere, si trovò di fronte ad una macchina da scrivere e decise di impararne il funzionamento, arrivando a battere sui tasti oltre mille pagine di un diario in cui raccontò la sua vita, intervallando ogni parola da una virgola o da un punto e virgola. Quei fogli, tenuti insieme da un fil di corda, vennero consegnati all’Archivio dei diari dal figlio Vincenzo.
Fu leggendo quell’intervista che decisi di andare, per la prima volta a Pieve Santo Stefano, per visitare quel luogo della memoria dal basso. Da allora ci sono state altre volte ed è sempre un’emozione varcare la porta di questo edificio in cui sono custoditi oltre 7.000 diari, settemila storie di persone sconosciute, il doppio degli abitanti di questo borgo aretino; 840.000 fogli, scritti su carte di ogni tipo, dai quaderni al retro dei foglietti giornalieri di un calendario, che compongono una grande storia dell’Italia.
All’ingresso campeggia, protetto da una teca, un grande lenzuolo, scritto in ogni sua parte; una scrittura fitta, irregolare, con le righe numerate per non perdere il filo del racconto, affascinante fin dalla dedica: “Care persone fatene tesoro di questo lenzuolo che c’è un po’ della vita mia”.
Quel lenzuolo è stato riempito di parole da Clelia Marchi, nata nel 1912 a Poggio Rusco, nel mantovano. Sposata a sedici anni con Anteo Benatti, entrambi contadini, mette al mondo quattro figli e ne perde altrettanti; una lunghissima storia d’amore che si interrompe nel 1972, quando il marito muore in un incidente stradale. Ed è a lui che Clelia dedica questo lenzuolo, un monumento alla loro vita insieme – “Non posso più consumare le lenzuola con mio marito, ci scrivo sopra” – in cui vengono raccontati i sacrifici di una vita, la guerra e la liberazione, le nascite e i lutti, con un titolo bellissimo: Gnanca na’ Busia. Neanche una bugia.
Ecco, forse si racchiude qui, in quel neanche una bugia, la bellezza e la forza delle migliaia di pagine custodite nell’Archivio dei diari. Infatti tutti quelli che hanno scritto questi diari lo hanno fatto con un solo scopo: fermare, fissare uno o più giorni della propria vita, per darle un significato. Nessuno di loro pensava che un giorno lontano qualcuno potesse raccogliere quelle storie, dare un volto alle loro esistenze sconosciute e, quindi, non c’era bisogno di romanzare, edulcorare, mentire.
C’è davvero una grande e autentica storia dell’Italia in tutte quelle pagine. C’è la lettera di una contessa dell’Ottocento, scritta in verticale e in orizzontale, al suo amante bersagliere, dove si capisce come era l’amore a quel tempo. Questa lettera, insieme ai diari di moltissime donne, racconta una realtà ben diversa da quella dei romanzi rosa dell’epoca: c’era la vergogna e la sottomissione, una donna accusata di tradimento finiva in carcere, mentre l’uomo veniva semplicemente redarguito.
Tanti sono i diari degli emigrati, che scrivono per fissare nella memoria i luoghi lasciati, come fa Calogero Di Leo, un siciliano di Lucca Sicula, emigrato negli anni Sessanta, prima in Scozia e poi in America: “Sono stato sempre un umile emigrante e sempre lo sarò fino alla fine… Entro nel sedicesimo anno un giorno mi metto a calcolare quante anime viventi aveva nella mia città di Lucca Sicula. Voi direti era un paesetto e adesso una città, vi spiego subito comera composta la città, settecento famiglie, tremila cinquecento abitante, mille e cinquecento muli cavalli e asini, mille e duecento capre e pecore, quattrocento cani, settecento gatti uno per famiglia perché uscivano topi da tutti i lati, trecento cinquanta coniglie e mezzo a famiglia che tutti non le potevano allevare, duecento vacche e tori, duecento maiali, venticinque, uno per famiglia i ricchi e benistante, venticinque mezzo per famiglia per quelli che stavano bene, centocinquanta un quarto per famiglia per la classe popolare, e il resto delle famiglie più poveri sentivano l’odore del porco e della salsiccia. Quattordicimila galline e galli e capponi, Quattro per persona per un’anno, tacchini quasi si sconoscevano. Totale anime abitante 22.150, si poteva chiamare una cittadella”.
Oggi, all’Archivio, arrivano i diari dei migranti e anche questo parallelismo ci può aiutare a capire qualcosa di più, rispetto ai facili populismi; ricordandoci, ad esempio, le vite sofferte che milioni di italiani hanno vissuto in un ancora recente passato.
La guerra, il fascismo, la Liberazione tornano spesso tra le pagine, come quelle scritte da Orlando Orlandi Posti, che affidava il racconto della sua condizione in carcere, da dove descriveva i suoi sentimenti, a messaggi clandestini, infilati nei colli delle camicie che venivano portati fuori dalle lavandaie, scritti dal carcere di via Tasso a Roma prima di essere fucilato alle Fosse Ardeatine.
Non mancano diari che raccontano il mondo, come quello di Giulio Cesare Scatolari, un giovane medico di Jesi che nel 1895, a soli 23 anni, parte per il Congo Belga per curare i malati; nelle sue pagine si ritrova una geografia dettagliatissima e lo stupore di una natura affascinante e altrettanto violenta.
Sono storie in cui prevale il sacrificio, la fatica, anche di vivere; pagine in cui si descrive la fame, la guerra, ma anche la semplicità di giorni in cui a dominare era la solidarietà, l’aiuto, la comunanza di abitazioni dove la porta di casa era sempre aperta. Pagine che, per molti, sono state un aiuto a superare una malattia, ad affrontare un disagio psichico.
Scrivere, non si fa più. Siamo impegnati a vivere, ma si deve imparare a vivere e la scrittura ce lo permette. Me lo insegna, ancora una volta, una pagina di diario (non custodito all’Archivio dei diari, perché ancora in corso d’opera), di “frammenti di vita vissuta” che, ogni giorno, scrive Rosetta, una bella bisnonna di 87 anni: “Io non rimpiango il passato di cui ricordo facilmente le cose buone e meno le difficoltà. Rimpiango solo la semplicità dei rapporti umani così belli e affettivi, un sorriso a chi incontravi e ti dava il buongiorno… Eravamo più poveri e non lo sapevamo. Non guardavamo le piccole cose. Poi ci siamo voltati e abbiamo capito che erano grandi”.
Luigi Franchi
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