Non conoscevo Lino Maga fino a pochi giorni fa quando un’amica mi raccontò di lui e della presentazione del libro della sua vita, scritto da Valerio Bergamini, organizzata da Slow Food a Piacenza.
“Per averlo a quella presentazione – mi raccontò – sono andata a casa sua, a Broni, e lui, sfogliando un’agendina densa di parole scritte, mi disse che l’8 marzo non poteva, il 9 neppure, il 10 si perché avrebbe finito i travasi con la luna nuova”.
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L’ho ascoltato per la prima volta ad un comizio agrario in tema di “Memorie di Biodiversità”: una staffetta di interventi che ha visto alternarsi un enogastronomo, un accademico e lui, contadino vecchio stampo.
Schiacciante per semplicità e saggezza ha infervorato, più di tutti, gli animi dei presenti, con il suo linguaggio chiaro e la purezza della sua visione.
Guerrino Fanchi, una vita spesa per buona parte all’estero come meccanico, giunto all’età della pensione circa 20 anni fa, ha maturato di tornare a vivere nella casa che gli ha dato i natali, nel caratteristico borgo di Cà Fanchi, frazione di Pennabilli.
Nel 2008 Cristian aveva 14 anni, Agostino e Alfredo 16, Luigi 18, Francesca 19 e Raffaele 21. Si incontravano, un po’ per caso un po’ per noia, insieme agli altri coetanei sul sagrato della chiesa parrocchiale si San Leone II del paese: Gragnano, in provincia di Napoli.
Dopo il panuozzo, cominciavano le chiacchiere, i sogni, la contraddizione tra la necessità di andare lontano e il desiderio di restare nel proprio territorio. Dal sagrato lo sguardo correva sulla Valle dei mulini, il luogo dove nasce la leggenda della pasta di Gragnano.
Cammino lungo il corso principale di Maiori. Ho già fatto mio quel ritmo lento, meraviglioso, che solo il Sud sa regalare. Quel monito a lasciarmi vivere dalla vita. Che sia lei a guidarmi in questa passeggiata mattutina senza programmi se non quello di godermi gli azzurri. Del cielo, del mare e degli sguardi luminosi di chi questa terra la abita.
Avanzo sbirciando le vetrine e più ancora gli interni per carpirne i mondi. Non ho acquisti da fare. Mi diletto solo ad osservare curiosa. In questo incedere il mio sguardo intercetta una pasticceria. Ecco! Si attivano i miei sensori di massima attenzione. “Una pasticceria!” mi dico, come se avessi trovato un tesoro nascosto. Cerco di fare una prima sommaria analisi dall’esterno: “Com’è l’ambiente? C’è assortimento di paste? Che aspetto hanno?”. La risposta è il mio ingresso.
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Da bambino trascorreva parte dei suoi pomeriggi in soffitta nella stanza dei giochi, attigua allo spazio dedicato alle batterie di aceto balsamico tradizionale, singolare dote tramandata nelle famiglie modenesi.
E accadeva, in quei pomeriggi, che piuttosto di scendere in casa a bere, Gilberto si avvicinasse sornione alle botti, ne stillasse una piccola quantità e se la gustasse. Quella bevanda gli piaceva.

Gilberto Barbieri
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La Parma che mi piace abita al civico 16/A di Viale Antonio Gramsci e risponde al nome di COCCHI, prezioso scrigno di storia e gesta parmigiane, oltre che tempio del mangiare come tradizione comanda.
Sì perché in questo ristorante, che da sempre percorre la sua strada incurante di inseguire giudizi o tendenze di sorta, trovo ben di più di piatti eseguiti magistralmente uguali a se stessi, secondo un’abitudinaria perseveranza. Semplicemente qui trovo espresso lo stile parmigiano.
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Montecatini, maggio 2013; Massimiliano Barbato lo conosco qui, condividendo un leggero pranzo a buffet in attesa dell’assemblea di Euro-Toques Italia. Mi fa subito simpatia con quella faccia a metà tra lo spaesato e lo scanzonato. Mi racconta dove vive (a Cremona), dove ha lavorato come cuoco ( dal Byron di Forte dei Marmi alla corte del Re di Giordania, passando per Parigi, Londra, Amburgo, Puerto Rico, Chicago, New York con Tony May), che ora è disoccupato in cerca di un locale vicino a casa perché neo-papà.
Fiorenzuola d’Arda, giugno 2013; a cena con i miei amici in un ristorante-pizzeria dove c’è un bravissimo cuoco, Francesco Paolo Donnarumma, la cui principale credenziale è il paese d’origine, quella Vico Equense da cui sembra escano bravi cuochi come per magia. Il titolare mi dice che sta cercando un cuoco in affiancamento.
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Il miglior scatto della fotografia europea è Reggio Emilia, che si apre e svela la propria anima lungo un percorso spalmato sull’intera città, dove fanno tappa le più svariate installazioni e mostre fotografiche. A rimarcare la meraviglia e, a volte, la sorpresa di scoprire certi luoghi. Inediti, anche per chi ci abita.

Piazza Fontanesi
Bella Reggio Emilia, bella anche nella quotidianità, quando inforchi la bicicletta e ti diverti ogni giorno a percorrerla facendo disegni diversi nell’atmosfera delle vie dagli eleganti palazzi con interno a sorpresa, dei vicoli d’antiquari a misura d’uomo, dove l’occhio corre a destra e sinistra, come a rilevare quel qualcosa di diverso che ogni volta riserva.
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Marina Aequa, virgola di terra lambita dal mare, una sorta di baia che ha in seno un piccolo borgo dal fascino retrò, dove il tempo sembra curiosamente cristallizzato. Sull’angolo, come ritratta, svetta una torre, la torre del Saracino, splendido baluardo (torre di avvistamento del VI sec d.C.) che ricorda le scorribande saracene e ora luogo di richiamo dei più raffinati gourmet.
E’ il tempio di Gennaro Esposito, l’amatissimo chef amico di tutti, che lì dentro ha costruito sapientemente il suo mondo, l’ambientazione del ristorante Torre del Saracino, perché gli ospiti possano tenerlo a lungo in memoria.
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“Ci troviamo davanti alla chiesa”. Questo il riferimento che mi guida mentalmente mentre mi addentro nell’entroterra riminese, rapita da vallate verdissime e così ben articolate da sembrare un’architettura.
Di paese in paese arrivo finalmente a Roncofreddo , un vero e proprio terrazzo a 360°, ogni angolo un occhio su una fetta di terra diversa. Che non sia arrivata nel cuore del mondo?
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